Collezione di Etnografia

Raccolte dall’estremo oriente

Reggio e l’Hinomaru

]Era il 21 Ottobre del 1600 quando le grandi coalizioni dei Daimyō dell’Est e dell’Ovest, forti di quasi ottantamila uomini da ambo le parti, si affrontarono nella piana di Sekigahara 関が原 (situata nell’attuale Prefettura di Gifu). In palio, l’ambito titolo di Shōgun e il dominio assoluto sul Giappone di fine ‘500.
Grazie all’improvviso tradimento di un samurai della parte avversa, il capo degli eserciti dell’Est, Tokugawa Ieyasu (1543-1616), sconfisse i propri nemici ponendo finalmente fine al lungo periodo di guerra civile che aveva devastato il paese sin dalla fine del ‘400. Proclamatosi Shōgun, Ieyasu cederà infine il titolo al figlio Hidetada (1579-1632), dando inizio alla dinastia che regnerà per quasi due secoli e mezzo sul Giappone del periodo Edo (1603-1868).

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    Chiuso ai rapporti commerciali e diplomatici con l’esterno dal nipote di Ieyasu, Tokugawa Iemitsu (1604-1651), il Giappone rimarrà isolato dal resto del mondo fino alla metà del diciannovesimo secolo quando il Commodoro americano Matthew Calbraith Perry (1794-1858) forzerà, sotto la minaccia dei cannoni delle sue “Navi Nere”, l’ultimo dei Tokugawa ad aprire i porti del paese al commercio con gli Stati Uniti e le altre potenze europee.
    Infuriati dalla debolezza dello Shōgun nei confronti dei “Barbari Occidentali”, i Daimyo dei feudi di Satsuma e Chōshu (discendenti dei signori sconfitti da Ieyasu a Sekigahara) si misero a capo di una coalizione per rovesciare il regime Tokugawa e riportare le redini del paese nelle mani dell’imperatore, rimasto esautorato dal potere effettivo per quasi sette secoli. Al grido di “W l’Imperatore! Fuori i Barbari!” i nemici dello Shōgun sconfissero le forze leali all’Ancién Regime nella Guerra di Boshin (1868-69), ponendo sul trono imperiale il giovane imperatore Meiji (1852-1912).
    Consci dell’arretratezza del paese nei confronti delle potenze occidentali e preoccupati della possibilità che il Giappone divenisse terra di conquista per gli appetiti coloniali stranieri, Meiji e la sua corte lanciarono una ardita politica di riforme per tecnologizzare il paese sul modello europeo, sostituendo al motto xenofobo della Guerra Boshin quello più pragmatico di “Civiltà e Illuminazione”.
    A traghettare il Giappone Post-Tokugawa ancora feudale nella modernità saranno chiamati gli “Oyatoi Gaikokujin”, ovvero esperti stranieri incaricati di trasferire ai giapponesi le “Best Practices” dei rispettivi paesi. L’esercito francese avrebbe così fatto da modello alla neonata Armata Imperiale, esperti inglesi e americani avrebbero contribuito alla nascita e alla riforma del tessuto industriale ed agricolo nipponico, mentre a esperti tedeschi e prussiani sarebbe toccato il compito di modernizzare la burocrazia e la tecnologia medica del Sol Levante.
    È in questo aperto clima di rinnovamento culturale che nel 1889 aprì a Tokyo la “Kōbu Bijutsu Gakko” (Scuola di Belle Arti dell’Istituto Industriale) dove giovani aspiranti artisti giapponesi avrebbero appreso l’arte della pittura e della scultura europea da docenti inviati da una nazione allora giovane quanto il Giappone Meiji: Il Regno d’Italia.
    Alla cattedra di pittura siederà il celebre pittore reggiano Antonio Fontanesi (1818-1882), che nei suoi tre anni di docenza istruirà futuri artisti giapponesi come Asai Chū (1856-1907) e Yamamoto Hosui (1850-1906) la pittura ad olio, la prospettiva, l’anatomia e lo schizzo. Molto amato dai suoi studenti, Fontanesi sarà costretto per motivi di salute a rientrare in Italia nel 1878, venendo succeduto dal conterraneo Prospero Ferretti.
    Pur non incontrando lo stesso successo del suo predecessore, Ferretti raccoglierà in Giappone una collezione di manufatti giapponesi che donerà, al suo rientro in patria, ai Musei Civici di Reggio Emilia dove sono ancora conservati a ricordo e testimonianza degli “italiani che fecero il Giappone”.