La Pietra di Bismantova
1960 / 70
Olio su tela, cm. 98 x 138
Presentata nel 1863 a Bologna alla I Esposizione regionale delle Accademie dell’ Emilia, l’opera ottiene una menzione onorevole nella classe di Paesaggio anche se i giornali del tempo criticano l’eccessiva perfezione formale. L’omaggio a una veduta tipica della montagna reggiana (la Pietra di Bismantova riconoscibile sullo sfondo) si traduce infatti nella proposta ormai inattuale di un paesaggio completamente idealizzato, descritto minutamente nei particolari dei cespugli e delle fronde degli alberi ma poi tutto artificiale nella resa atmosferica e nello studio artefatto della luce, che illumina come per effetto di spot teatrali i punti salienti della visione. Nota Claudio Poppi: “La Pietra di Bismantova segna dunque nel percorso di Fontanesi., che si era sempre mantenuto su posizioni ‘progressiste’ e aperte al nuovo, un momento in cui la nuova e più radicale maniera di aderire al “vero” (...) rende la sua produzione una mera sopravvivenza, senza più futuro, di modelli ormai superati”.
Pomeriggio alpino
1889 - 1900
Olio su tela, cm. 58 x 97
La visione dei calanchi, riferibile al paesaggio vicino a Bergonzano, che l’artista ritrae in numerosi paesaggi, diventa occasione per l’adesione a un linguaggio figurativo più moderno, avviato verso una sintesi che caratterizzerà le opere degli anni seguenti. Resiste l’esigenza del’ aneddoto - il pastorello addormentato scoperto dalle due contadinelle- ma l’esigenza di rappresentazione del vero si fa più scoperta nella limpidissima resa atmosferica del paesaggio collinare, di grande apertura prospettica. La differente gamma cromatica - spenta nei colori lattiginosi della terra riarsa dei calanchi e del vello delle pecore in primo piano, vivacemente brillante nella resa dei verdi e degli abiti variopinti delle due ragazzine- contribuisce a dividere la composizione in due ideali fasce sovrapposte, che sfruttano il medesimo accorgimento di contrapposizione tra chiaro e scuro rintracciabile come una costante nelle opere dell’artista.
Paesaggio
Olio su tavola, cm.27x38
In quest’opera, abbandonato lo stile degli esordi, direttamente legato all’ esempio di Manicardi (suo compagno alla Scuola di disegno) , sollecitato dal confronto con le esperienze post-macchiaiole, Tirelli approda a questo personalissimo uso della tecnica impressionista, liberando attraverso un uso emozionale del colore vibranti sensazioni di energie vitali. La composizione predilige un’ organizzazione in diagonale che consente una più coinvolgente immersione della natura. Liberissima la stesura pittorica, e negli accentuati contrasti cromatici e nella stesura rapida e materica, un felice sovrapporsi e intricarsi di pennellate a cui si mescolano brevi tocchi di luminosità, secondo i principi del divisionismo, qui risolti senza preoccupazione di tipo scientifico, ma piutttosto come ulteriore possibilità espressiva.
Le spigolatrici (dopo la mietitura)
1881,
olio su tela, cm. 109 x 153
Il dipinto, considerato il capo d’opera nella produzione dell’ artista, documenta le caratteristiche del suo stile, approdato, dopo la prima formazione presso Giovanni Fontanesi, da un lato a un più libero taglio della veduta, tesa a rappresentare luoghi e particolari del paesaggio della campagna reggiana ben riconoscibili, dall’ altro a una resa pittorica rigidamente chiusa entro i limiti di un disegno che individua con lenticolare precisione le fronde degli aberi, i fiorellini, le spighe di grano. Lo studio sul vero - avvertibile nella correttezza delle ombre riportate, nell’ individuazione dell’ ora della giornata- rifiuta il confronto con le esperienze macchiaiole che l’artista doveva avere conosciuto in occasione della partecipazione a mostra regionali e nazionali. Gli sfugge completamente dunque la novità che vede nell’ accostamento di colori e di pennellate di luce la possibilità di una visione più aderente al vero, e anzi il suo impegno pare accanirsi in un’ accentuazione del segno di contorno che restituisce la finitezza teorica e astratta di ogni particolare.
Marina in burrasca
1878-81
olio su tela, cm. 80 x 110
Inv. 39
L’opera è collocabile negli anni seguenti il soggiorno giapponese dell’ artista, anni di intenso lavoro e nuove sperimentazioni. La tecnica pittorica si arrischia in zone di materia corposa, stesa a spatola, vicine ad altre invece quasi raschiate o lasciate incomplete a intravedere la tela. Il problema della luce - della visione frontale della luce - lo assilla e lo porta a immaginare - come in questo caso - arditi contrasti di controluce. In questi ultimi anni della sua vita è la lezione turneriana , appresa anche nel suo soggiorno londinese del 1865-66, a tornare di attualità portandolo a risultati di grande espressività in cui ancora una volta la visione del paesaggio si carica di significati simbolici, allusivi a un momento di cupa incertezza e disperazione.
Solitudine
1875
olio su tela, cm. 150 x 115
L’ opera è esposta alla Promotrice di Torino del 1875. Le radiografie eseguite in occasione di diversi e complessi interventi di restauro hanno consentito di individuare una storia esecutiva lunga e travagliata, articolata in almeno tre diverse stesure, separate da strati di sporcizia, e quindi intervallate di molti anni. D’altra parte il tema della solitudine è di particolare interesse per l’artista, a partire da Novembre del 1864 (Torino, Galleria Civica d’arte moderna e contemporanea), dove compare il soggetto della pastora immersa nel vasto silenzio di una natura grandiosa ma lontana. La Solitudine di Reggio ha suscitato l’interesse di numerosi critici e artisti dei decenni seguenti: si ricordino le impressioni suscitate in Giuseppe Pelliza da Volpedo in occasione della sua esposizione alla Promotrice di Torino del 1892 e le lodi di E. Thovez.
L’Alpe del Cusna
1870
olio su tela, cm. 75 x 110
Rispetto agli straordinari precorrimenti delle opere della seconda metà degli anni sessanta questo dipinto (con cui Beccaluva partecipa all’ Esposizione di Parma del 1870 ottenendo pure, alla pari di Antonio Fontanesi, una medaglia di bronzo) rappresenta una battuta d’arresto. L’ importanza dell’ occasione forse trattiene l’ artista dal presentare un saggio delle sue ultime sperimentazioni e piuttosto gli consiglia una cauta mediazione tra la sua vecchia maniera e le avvisaglie del nuovo corso. Rimane - tipica delle sue opere dei primi anni sessanta- la scelta di una luce crepuscolare frantumata in un pulviscolo che tira al violetto, come pure l’inserimento della scena pastorale, ma più libera e mossa è la resa dei prati e dei declivi montuosi., indagata da una luce attenta a restituire le variazioni del chiaroscuro e gli effetti tonali. L’artista morirà giovanissimo l’anno seguente, senza aver potuto approfondire appieno gli importanti stimoli ricevuti a Firenze.
Il torrente asciutto
Olio su carta, cm. 25 x 33
Da prime opere ancora legate alla formazione presso Giovanni Fontanesi Beccaluva nei primi anni sessanta- a composizioni di questo tipo, in linea con le ultime tendenze dell’arte emiliana. In particolare sono stati sottolineati rapporti con l’opera di Luigi Bertelli e Guido Carmignani, con cui Beccaluva aveva esposto alla Triennale del 1863 a Bologna,. Ma sempre a Bologna l’artista aveva potuto anche confrontarsi con le novità macchiaiole (espongono infatti alla stessa mostra Cabianca e Abbati). Accorati cominciano infatti i suoi tentativi per andare a studiare a a Firenze (solo nel 1868 riuscirà ad ottenere una pensione e trasferirsi nella città toscana). Ma già in queste opere (si ritiene precedenti il soggiorno fiorentino) sono accolte con maturità le importanti innovazioni della pittura di paesaggio. La composizione si libera dall’ ossequio alla scansione tradizionale della veduta e alle regole prospettiche e si articola o per fasce sovrapposte o per cunei visivi che consentono un affondo nell’ immediatezza della realtà naturale. Lo studio della luce si fa preciso, teso a individuare attraverso un’ analisi puntuale delle ombre il preciso momento della giornata in cui la veduta è colta. La pennellata indugia nella sintesi di alcuni particolari e si frantuma nella resa coloristica e materica di zone del paesaggio. Con queste opere Beccaluva si segnala tra i più avanzati protagonisti della cultura locale.
L’antica porta di San Nazario in Reggio
1855
olio su tela, cm. 55 x 83
Tornato a Reggio nel 1853, Prampolini, accanto a una fortunata carriera di scenografo, continua la produzione di opere di paesaggio presentate alle principali esposizioni. La veduta dell’ antica porta di San Nazario della città di Reggio è una veduta idealizzante dall ‘impostazione accademica in cui la tensione morale avvertibile nelle opere romane ha lasciato il posto a una più tranquilla ricerca di “pittoresco”. Si noti sul fondo il particolare del chiostro in cui è possibile riconoscere il chiostro delle Grazie.
Il ponte dell’ Ariccia
1853
olio su tela, cm. 124 x 175
L’opera è inviata da Roma al Comune di Reggio nel 1853 per testimoniare i progressi artistici compiuti in Roma dall’artista grazie alla pensione comunale. Al centro del quadro è raffigurato il ponte costruito dall’ ingegnere reggiano Bertolini, opera grandiosa con tre ordini di trentaquattro colossali arcate che congiungeva il monte d’Albano e quello d’ Ariccia consentendo di raggiungere più agevolmente Napoli. Sulla destra si apre una veduta della campagna romana degradante fino al Mar Mediterraneo (dove si intravede la piccola isola di Ponza), in primo piano la Via Appia delimitata ancora a tratti dai grandi parallelepipedi di pietra tra cui crescono le elci e circondata da antichi ruderi, che si inontra -scrive l’artista in una lettera - con “l’antica e scabrosa strada postale che si doveva percorrere prima della costruzione del ponte; e questo si è fatto conoscere e vedere a più riprese, onde s’arguisca il fine per cui fu costruito tal mole”. Esplicite nelle intenzioni dell’artista le caratteristiche documentarie e didascaliche dell’opera, che doveva attirare l’attenzione del pubblico anche per le scenette di genere che la animano, in particolare l’aggressione a due contadini e al loro carico di masserizie, o la fugace visione dei due briganti illuminati da una torcia intenti a tramare nella grotta.
Nella valle del Serchio
1844
olio su tela, cm. 54,5 x 64
deposito Agenzia delle Entrate di Reggio Emilia
Dopo il fondamentale soggiorno di studio a Roma ( 1833 - 40 ) in cui ha modo di aggiornarsi sulle ultime tendenze della pittura di paesaggio, Fontanesi si trasferisce a la Spezia presso alcuni parenti. Sono anni di grande incertezza sul suo futuro, in cui l’artista abbandona quasi il mestiere di pittore per dedicarsi ad attività commerciali Nel 1843 riceve dalla famiglia del Duca di Modena la commissione di alcuni dipinti (tra cui il nostro Nella valle del Serchio) che sono presentati all’ esposizione modenese di Belle Arti del 1844. Anche negli anni seguenti ( l’artista torna a Reggio Emilia nel 1845, dove gli viene affidata la cattedra di paesaggio presso la Scuola di Belle Arti, ma continua a frequentare la Liguria nei mesi estivi) le vedute del mare presso Massa, La Spezia, o delle Apuane nei dintorni di Carrara sono protagoniste dei suoi dipinti. In queste opere Fontanesi dimostra di avere raggiunto un maturo mestiere pittorico, basato su uno studio assiduo dei particolari tratti dalla natura composti poi secondo quelle regole di armonia e di equilibrio compositivo che gli derivano anche dall’ ossequio ala tradizione di paesaggio secentesca. Il “vero” è ancora per lui un “vero scelto”, che dalla natura sceglie il meglio e si preoccupa di fornire vedute di amena e tranquilla serenità.
Veduta di strada appenninica
1860 / 70
Olio su carta riportata su tela, cm 32 x 49
Nel corso degli anni sessanta, ormai anziano, Fontanesi, forse stimolato dai più giovani allievi, Beccaluva in particolare, approda a una pittura decisamente aggiornata alle poetiche del vero: inedite strutture compositive strutturano i suoi paesaggi per diagonali, fasce sovrapposte, arditi chiaroscuri con una modernissima sensibilità alla resa della luce e dei valori atmosferici.
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