I ponti

Nel sentire comune degli antichi Romani la costruzione di un ponte ricadeva, prima di tutto, nella sfera del sacro: non a caso uno dei più importanti collegi sacerdotali di Roma era quello dei pontefici, il cui nome deriva dalla locuzione “pontem-facere”, cioè “costruttori di ponti”; in origine ad essi era probabilmente affidata la manutenzione dell’unico ponte che, nella Roma arcaica, collegava le due sponde del Tevere, il “pons Sublicius”. Va comunque sottolineato un secondo aspetto, legato alla perizia tecnica con cui i romani erano in grado di costruire arditi ponti in muratura ad arcate poggianti su piloni: la realizzazione di queste opere era possibile grazie ad una sviluppata esperienza da parte degli ingegneri romani nella costruzione di archi portanti in muratura e all’invenzione dell’opus coementicium, una malta idraulica che consentiva la realizzazione delle opere murarie di sostegno a diretto contatto con l’acqua. Lungo il tracciato della via Emilia il cosiddetto ponte di Tiberio a Rimini costituisce senza dubbio il più imponente e meglio conservato di questi manufatti: il ponte fu eretto sul fiume Marecchia per decreto dell’Imperatore Augusto ed il suo compimento si deve al successore Tiberio; venne realizzato in soli 7 anni (14-21 d.C.) come ricorda l’iscrizione che corre sui parapetti interni. Il ponte segna l’inizio della via Emilia e si trova all’estremità settentrionale della città. E’ costruito interamente in pietra d’Istria, a cinque arcate, con fregi in stile dorico ed è ancora oggi utilizzato dal traffico urbano; si tratta di una testimonianza tra le più significative dell’ingegneria romana; le sottostrutture dei singoli piloni non sono disgiunte le une dalle altre ma formano un’unica fondazione, che poggia a sua volta su un funzionale sistema di palificazioni di legno così da assicurare una formidabile solidità strutturale.

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Caio Giulio Valente, il decurione

Il ponte che tu stai attraversando, e che agevola il tuo cammino, è uno dei vanti della nostra città; esso consente alla grande strada che conduce a Roma, la via Emilia, di attraversare un piccolo ma irrequieto corso d’acqua, che scende dall’Appennino e divaga nella sottostante pianura. Nella brutta stagione non è raro che esso, gonfiato dalle piogge, percorra impetuoso il suo greto, e, rotti gli argini, arrechi gravi danni alle campagne ed alla città. Per evitare il ripetersi di disastrose alluvioni il nobile consesso di cui mi onoro di far parte ha provveduto a raccogliere le risorse e ad attuare, con appositi decreti, l’innalzamento degli argini, la creazioni di nuovi canali di drenaggio ed infine ad erigere questo ponte su solidi piloni in pietra, per consentire un facile transito ai viandanti. La spesa è stata ingente ed il suo gravame è ricaduto sulle spalle di noi decurioni, che abbiamo l’obbligo di finanziare le opere pubbliche della città con atti di mecenatismo che portano lustro a chi li compie. Dopo mesi di duro lavoro il ponte è stato ultimato e la sua imponenza sta a dimostrare quanto la concordia di intenti e l’operosità di una comunità consenta di superare ogni ostacolo.