#IspirazioneMuseo / Nicola Manzan

Nicola Manzan, musicista (1976)

Nato a Treviso nel 1976, consegue il diploma in violino nel 1997, strumento che lo porta a suonare con diverse orchestre e quartetti di carattere prettamente classico. Dal 1995 inizia un percorso parallelo nella musica leggera, ricoprendo il ruolo di chitarrista e violinista all’interno di alcune rock band d’ambito locale.
Nel 2000 si trasferisce a Bologna, dove inizia a collaborare con varie etichette discografiche indipendenti e studi di registrazione che lo coinvolgono nella scrittura degli arrangiamenti di brani di svariati artisti. Durante questa esperienza decide di specializzarsi come arrangiatore di archi e come polistrumentista suonando in studio e dal vivo non solo violino, viola e chitarra, ma anche tastiere e fisarmonica.

Da allora collabora in studio e dal vivo con band e artisti nazionali ed internazionali tra cui Baustelle, Ligabue, Lo Stato Sociale, Tre Allegri Ragazzi Morti, Ex-Otago, Fast Animals and Slow Kids, Mezzosangue e The Bluebeaters.

Ha scritto e registrato colonne sonore per cortometraggi e lungometraggi, ha svolto il ruolo di tutor all’interno della rassegna “Soundtracks” ed è uno dei valutatori del progetto “Sonda”, entrambi organizzati dal Centro Musica di Modena.

Nel 2005 ha fondato il suo personale progetto di musica sperimentale denominato Bologna Violenta con cui si è esibito in centinaia di concerti in Italia ed Europa, sia come solista che in duo. Sotto questo pseudonimo ha pubblicato sei album, cinque Ep e svariati singoli, remix e progetti tra l’harsh noise, l’hardcore e la musica contemporanea.

Bologna Violenta è stato materia d’esame nel corso di Arte Digitale all’Accademia di Belle Arti di Venezia e presso la stessa sede è stato anche presentato il progetto “The Sound of…”, in cui i pezzi di quaranta discografie diverse vengono fatti suonare simultaneamente. Nel documentario “Uno Bianca – Mirare allo Stato” (girato dagli studenti del Liceo Laura Bassi di Bologna, sotto la supervisione della regista Enza Negroni e con il patrocinio di Rai Teche) la colonna sonora è composta da brani tratti dai dischi pubblicati tra il 2010 e il 2016.

Dal 2018 collabora stabilmente con le band Ronin e Torso Virile Colossale nei ruoli di chitarrista e violinista.

Nicola Manzan è stato uno dei sette musicisti coinvolti nel progetto MuseumWeek 2020 | Togetherness | MCRElive, che si è svolto dall’11 al 17 maggio sulle piattaforme social dei Musei Civici, in cui ciascun musicista è stato invitato a dedicare una performance musicale ad una specifica sede della rete museale ispirandosi al tema del giorno indicato dal programma dell’evento internazionale. Gli abbiamo così voluto fare qualche domanda sul suo progetto site specific.

Come è nato il tuo lavoro dedicato all’ex Padiglione Lombroso, oggi Museo di Storia della Psichiatria, quale è stata l’ispirazione che hai colto e che ti ha guidato?

Alcuni anni fa, mentre mi documentavo su alcuni aspetti riguardanti la Prima Guerra Mondiale, mi sono imbattuto in alcuni filmati che parlavano del cosiddetto “shell shock”, ovvero il disturbo da stress post-traumatico riportato da un grande numero di soldati impegnati per lo più al fronte durante i combattimenti. Nello specifico, si trattava di individui che erano rimasti traumatizzati dalle vicende che si erano trovati a vivere e a subire durante le battaglie, e i disturbi si presentavano con forti tremori, deliri sensoriali, allucinazioni, tic e svariati altri fenomeni che impedivano loro di poter avere una vita normale. Qui in Italia chi presentava questo disturbo veniva soprannominato “scemo di guerra” e solo dopo alcuni mesi (o anni) di terapia poteva tornare a vivere una vita normale.
Il desiderio di fare un “lavoro” in qualche modo ispirato a queste tristi vicende umane è sempre stato vivo in me, tanto da decidere di dedicarmici non appena ne avessi avuto l’occasione.
Quando mi è stato proposto di fare un video per la giornata dedicata al Museo di Storia della Psichiatria, vedendo che una parte dello stesso è dedicata proprio agli “scemi di guerra”, ho pensato che fosse finalmente giunto il momento di provare a lavorare su questo tema, cercando di ricreare con il suono le cause, gli sviluppi, i sintomi ed infine la guarigione da questo disturbo.

Pensi dunque che il museo possa essere un luogo di formazione, di crescita e di ispirazione per un musicista? 

A mio avviso il museo dovrebbe essere uno dei luoghi cardine per la formazione di un musicista o degli artisti in generale. Di sicuro la vita di tutti i giorni ci può essere di grande ispirazione per scrivere musica, ma questo secondo me non può bastare: il rischio principale è quello di affrontare la scrittura musicale con gli stessi standard che si conoscono da sempre, nella solita comfort-zone in cui siamo abituati a comporre, senza mai prendere in considerazione il fatto che fuori dal vissuto quotidiano ci possa essere qualche chiave di lettura che ci può aiutare a creare qualcosa di particolare, a volte anche più personale e meno scontato. La possibilità di poter conoscere opere di diverso tipo, provenienti da culture diverse, ma anche solo da epoche storiche diverse, può far sì che un musicista possa avere gli stimoli giusti per affrontare il proprio lavoro in maniera differente. Ma parlare semplicemente di “opere”, effettivamente, può essere riduttivo, perché non si tratta solo di questo. Si tratta, molto spesso di una esperienza che arricchisce nel senso più ampio del termine, perché ovunque ci sia una ricerca storica, di qualsiasi tipo essa sia, si possono trovare stimoli e idee nuove. Personalmente, penso di aver trovato più ispirazione nei musei non dedicati alla musica, che in quelli dove la musica era al centro di tutto.
Quindi, se da un lato la conoscenza di quanto è stato fatto prima di noi è la base da cui partire per evitare di cadere in banalità dettate dall’ignoranza, dall’altro penso che sia importante avere la capacità, o anche solo la voglia, di approcciare la propria materia come se si trattasse di qualcosa di completamente diverso; la ricerca al di fuori di essa può essere un momento fondamentale per creare il proprio stile e cercare di creare qualcosa di interessante, magari fuori dagli schemi e probabilmente anche originale.

Alla luce di quanto sta accadendo, in questo momento così pesantemente condizionato dal rischio di una nuova pandemia, quali potrebbero essere secondo te le strade da percorrere? Patrimonio culturale e ricerca musicale potrebbero attuare sinergie proficue?

Direi che stiamo vivendo il “worst case scenario” che la mia generazione avesse mai pensato di poter affrontare. Quindi anche le strade da percorrere sono delle strade impervie, non ben delineate, che spesso sembrano portare ad una meta, che però potrebbe essere un semplice miraggio. Mi auguro vivamente che questo non accada, ma nel frattempo mi sembra che in molti stiamo pensando ad alternative che siano valide, a trovare nuovi modi per poter mettere la nostra arte a disposizione del pubblico.

Forse dovremmo cominciare a pensare che quello che facciamo un giorno potrebbe far parte di un patrimonio da lasciare ai posteri, che la nostra musica un giorno verrà studiata dalle generazioni future. Se si pensasse a questo, ovvero al fatto che comunque nel tempo solo chi si è spinto in avanti nella creazione di qualcosa di originale e particolarmente interessante è entrato nei libri di storia, forse inizieremmo tutti a lavorare con la musica in maniera diversa, con più serietà, con una ricerca maggiore, tenendo ben presente che comunque va fatto un passo alla volta, sapendo benissimo che più si spinge sull’acceleratore, più si rischia di farsi male.
Penso spesso al fatto che noi musicisti dovremmo smettere di adagiarci sugli allori, riproponendo sempre una “minestra riscaldata”, che sappiamo benissimo piacere più o meno a tutti, cercando come ultimo fine il successo facile, che si traduce spesso in un mero fuoco di paglia. Dovremmo trovare la nostra strada, esplorarla, cercando di alzare sempre di più l’asticella della ricerca, cercando a piccoli passi di far crescere anche chi ci ascolta, mettendo insieme elementi che possano essere fruibili ed altri che possano essere nuovi e a volte interessanti, anche se inesplorati e particolarmente fuori dai canoni.

Sono però convinto che le istituzioni dovrebbero avere le capacità di capire chi sta facendo un lavoro in questa direzione, investendo su questi aspetti di ricerca e di sperimentazione, coinvolgendo un pubblico non solo di eletti, cercando di portare ad un’audience sempre più ampia le nuove forme musicali, anche se non sono di immediato successo. E dovrebbero considerare la musica uno strumento di mediazione e comunicazione, non soltanto intrattenimento.
Purtroppo la quotidianità vince sulla “ricerca”, perché si torna sempre alla già accennata comfort-zone, ma mi piace pensare che ci possa essere qualcuno con la capacità di investire su nuove idee, magari non pensando al profitto immediato, rendendosi conto che molte opere che una volta erano “sperimentali”, al giorno d’oggi sono considerati dei “classici”.

Georgia Cantoni
Responsabile comunicazione
Musei Civici di Reggio Emilia